Un mondo di plastica

immagine di colori diversi che rappresenta una discarica di plastica

Nairobi, la capitale del Kenya, è la sede in cui potrebbero proliferare nuovi accordi contro l’inquinamento da plastica, sfidando la necessità di mettere tutti d’accordo.

Siamo al terzo incontro di cinque, verso la stesura di un trattato previsto per il 2025, ma vi è uno scetticismo di fondo alimentato da un mondo sostanzialmente diviso in due: da una parte l’Europa che vuole limitare produzione e consumo di plastica, e dall’altra Stati Uniti, Cina e Opec (Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio) che incoraggiano la mera ottimizzazione del riciclo e della gestione dei rifiuti.

Al momento solo il 9% della plastica è riciclata, e se pensiamo che la produzione annua è più che raddoppiata in vent’anni, raggiungendo i 460 milioni di tonnellate, non è complicato ipotizzare la sua triplicazione entro il 2050, spinta dalla crescita in parallelo della popolazione mondiale.

Non a caso lascia abbastanza smarriti la recente espressione secondo cui nel mare ci sarà più plastica che pesci.

Le microplastiche sono dei minuscoli pezzi di materiale plastico, solitamente inferiori ai 5 millimetri, che derivano principalmente da:

  • lavaggio di capi sintetici
  • abrasione degli pneumatici durante la guida
  • cosmetici (es. scrub facciale)
  • buste di plastica
  • bottiglie
  • reti da pesca

Da quando è stato scoperto che la plastica ha fatto il “giro” e ce la siamo ritrovata perfino nel cuore e nel latte materno, la pressione su governi ed istituzioni è salita considerevolmente.

In uno degli ultimi conteggi del 2022, gli scienziati giapponesi dell’Università di Kyushu hanno stimato la presenza di 24.400 miliardi di frammenti di microplastiche negli strati più superficiali degli oceani, l’equivalente di circa 30 miliardi di bottiglie da mezzo litro.

Ma quali sono gli effetti sulla salute?

Gli additivi e le sostanze chimiche presenti nelle microplastiche sono potenzialmente dannose alla stregua di altre particelle minuscole che respiriamo ed ingeriamo quotidianamente, tuttavia ad oggi non abbiamo ancora la certezza che causino effetti nocivi o patologici.

La vera piaga è rappresentata dalla plastica usa e getta che provoca inquinamento ed emissioni di CO2 fino a più dell’80% rispetto ad un packaging riutilizzabile.

In questi giorni sta imperversando la disputa che vede l’Italia al centro della proposta di Regolamento UE nel quale si antepone il riuso della plastica al suo riciclo. Tale decisione, a detta dell’ex presidente di Confindustria Antonio D’Amato, provocherebbe un aumento significativo di CO2 e del consumo di acqua.

Inoltre, secondo altri, danneggerebbe il nostro Paese che tanto ha investito su bioraffinerie ed impianti di riciclo degli imballaggi, raggiungendo quota 73,3%, al di sopra della media europea e della soglia del 70% prevista per il 2030.

L’industria del riciclo è un settore da 236 mila occupati, 10,5 miliardi di valore aggiunto e più di 25 milioni di materie prime seconde prodotte.

Nairobi a parte, attendiamo con trepidazione anche il 20 novembre, quando il Parlamento Europeo discuterà la normativa sugli imballaggi e il futuro della maggior parte dei rifiuti.

A supporto delle regolamentazioni, è però fondamentale adottare comportamenti più virtuosi e lanciare il proprio segnale. Siamo noi consumatori che definiamo le nostre abitudini ed il mercato, così noi decidiamo la sua evoluzione.

Privilegiare i negozi locali, evitando imballaggi di plastica per prodotti di piccola taglia ed acquistando quanti più prodotti sfusi possibili, comprare le ricariche per detersivi e detergenti, e ove possibile andare alla fonte con boccioni o bottiglie di vetro per rifornirsi d’acqua.

L’arma principale dell’economia circolare siamo noi. Riuso o riciclo che sia.

Ormai siamo consapevoli, abbiamo conoscenza, strumenti ed alternative.

Manca la voglia.

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